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Vietato distruggere indumenti invenduti: le nuove regole dell’Europa

Il fast fashion - e le sue conseguenze sull'economica e sull'ambiente - è una delle piaghe del mondo moderno: ecco cosa ha proposto la Commissione europea per prevenire il problema della distruzione degli invenduti.

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Arriva su approvazione del Consiglio e del Parlamento europeo la proposta di regolamentare il settore della progettazione eco-compatibile, quindi dei prodotti ecosostenibili, a partire dalla definizione di appositi requisiti. Si prevede l’applicazione del nuovo regolamento a tutte le categorie di prodotti, quindi anche agli elettrodomestici grandi e piccoli, agli infissi, agli oggetti di uso comune, come un caricatore. 

La direttiva UE del 2009 viene quindi sostituita dal nuovo regolamento, che estende il campo di applicazione della precedente normativa, relativa soltanto ai prodotti legati all’energia, con l’obiettivo di individuare proprio dei requisiti di prestazione e informazione per ogni tipologia di bene immesso sul mercato UE

Tra le novità proposte, troviamo il divieto di distruzione di indumenti invenduti, non solo i prodotti tessili, ma anche le calzature. Vediamo cosa cambia nel concreto e qual è l’attuale ciclo di creazione e distruzione di vestiti a livello globale. 

Prodotti ecosostenibili e Passaporto digitale

La decisione presa a livello istituzionale segna un importante passo avanti in un mercato in cui ogni anno vengono prodotte tonnellate di vestiti, un numero troppo alto e incompatibile con le esigenze reali dei consumatori, nonostante la velocità esorbitante alla quale si muove. 

Il nuovo regolamento mira a stabilire dei requisiti che possano permettere a determinati prodotti di essere più efficienti, durevoli, affidabili, riparabili, riutilizzabili, aggiornabili, riciclabili

Pertanto, al fine di favorire la circolazione dei prodotti sul mercato unico, sarà fornito un “Passaporto digitale dei prodotti”, nel quale saranno indicate informazioni sulla sostenibilità ambientale degli stessi. In questo modo, consumatori e aziende potranno compiere scelte più consapevoli nell’acquisto dei prodotti e le autorità saranno coadiuvate nell’effettuare eventuali controlli. 

Il nuovo accordo assegna alla Commissione europea il potere di decretare le condizioni da rispettare per l’eventuale distruzione di beni invenduti, prevedendo altresì i criteri per applicare eventuali sanzioni, che saranno però determinate e applicate dalle singole Autorità nazionali.

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Divieto di distruzione prodotti di consumo invenduti

Il nuovo regolamento UE introduce anche nelle disposizioni sulla trasparenza e la prevenzione della distruzione degli invenduti

In particolare, il divieto diretto viene applicato sui prodotti tessili e le calzature che le imprese non riescono a vendere. Tale divieto non sarà però in vigore per le piccole e microimprese, mentre quelle di medie dimensioni avranno diritto a un’esenzione pari a 6 anni. 

La proposta approvata prevede che il divieto entri in vigore dopo 2 anni dall’approvazione del regolamento. La Commissione avrà il diritto di introdurre eventuali altri divieti riguardanti la distruzione di altri invenduti, tramite atti delegati. 

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Dove finiscono i vestiti non venduti?

Quando letto fin qui ci fa capire che la decisione presa a livello comunitario è encomiabile, ma al contempo richiederà diverso tempo prima di essere messa in pratica. A questo proposito, ci siamo allora chiesti: che fine fanno i capi non venduti? Come vengono smaltiti oggi?

Sono 39mila tonnellate gli indumenti prodotti per i mercati occidentali che, in balia del fast fashion, finiscono con l’essere utilizzati per poco tempo per poi sparire chissà dove. In base a quanto emerge da un report di France Press, questi abiti dismessi, quindi di seconda mano, e gli invenduti vanno a finire nel deserto più arido del mondo, Atacama, in Cile

Il fast fashion produce un quantitativo enorme di vestiti “usa e getta”: costano poco e incentivano i clienti ad averne sempre di più. Mentre fino a qualche tempo fa si era soliti spendere tanti soldi per un cappotto o un paio di jeans che si sarebbero indossati per anni, oggi si preferisce spendere poco per degli indumenti che saranno sicuramente rimpiazzati l’anno successivo

La moda veloce si riversa così nelle dune del deserto di Atacama: gli indumenti provengono solitamente da Europa, Asia e Stati Uniti, sono spesso prodotti in Cina, Bangladesh, India, Pakistan e Vietnam – Paesi noti per bassi costi di manodopera e condizioni di sicurezza quasi assenti – e terminano la loro corsa in Cile, nel porto di Iquique

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fast fashion dove vanno a finire gli invenduti

Perché gli invenduti vengono mandati in Cile? 

I vestiti invenduti o di seconda mano vengono spediti in Cile non a caso. Iquique, infatti, è una città portuale che è stata trasformata dal Governo in una zona franca al fine di:

  • incentivare l’economia locale;
  • favorire il trasporto internazionale delle merci. 

Le aziende che si trovano qui non pagano imposte doganali e possono accedere agli indumenti provenienti dall’Occidente o dal Nord America a prezzi davvero stracciati. 

Una volta arrivati a destinazione, gli abiti vengono smistati:

  • se si trovano in buone condizioni, vengono rivenduti nei mercati locali o negli altri Paesi dell’America Latina;
  • gli abiti che si trovano in condizioni peggiori, invece, vengono portati in discarica. Quella del deserto di Atacama è diventata la discarica abusiva a cielo aperto più famosa al mondo: montagne di vestiti vi si accumulano ogni giorno, per evitare i costi dello smaltimento. Non di rado, è possibile vedere persone che rovistano tra gli indumenti abbandonati nella speranza di poterli rivendere. 

Atacama, con le sue 40.000 tonnellate di prodotti di scarto del fast fashion, rappresenta solo il caso che suscita più clamore, ma non è di certo il solo. Molti degli abiti depositati in questa enorme discarica sono composti da tessuti sintetici, prodotti dalla plastica, che impiegheranno anche più di 200 anni per smaltirsi in modo naturale. 

Gli stessi rilasciano sostanze tossiche che inquinano il suolo, mentre il recupero di rifiuti tessili tramite la loro trasformazione in altre fibre o pannelli isolanti appare ancora come la scelta di pochi. Nel frattempo, la macchina del fast fashion avanza e fermarla è diventato pressoché impossibile. 

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Maria Saia
Esperta di diritti delle donne
Ha respirato per più di 20 anni la stessa aria di Falcone e Borsellino e ne condivide, ancora oggi, il sogno utopico di un mondo senza mafie e ingiustizie. Non a caso, “È la giustizia, non la carità, che manca nel mondo” è una delle sue citazioni preferite. Su deQuo, scrive di bonus e agevolazioni statali e di diritti della persona - in particolare, di diritti delle donne.
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