La rinascita dell’anatocismo bancario: quando e come è possibile
Cosa significa il termine anatocismo? Quando è consentito in ambito bancario? Vediamo come funziona, quando si verifica e se è legale oppure no.
Il termine anatocismo viene utilizzato in ambito economico per indicare il calcolo degli interessi su altri interessi già maturati su una determinata cifra.
Le norme relative al settore bancario vietano la produzione di interessi su eventuali interessi già dovuti dal cliente, che tradotto in altri termini significa che implicano il divieto di anatocismo.
Analizziamo allora più da vicino il funzionamento dell’anatocismo bancario, al fine di comprendere cosa sia legale oggi e quali sono i casi in cui il divieto può non essere applicato.
Cosa è il divieto di anatocismo?
Il divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c. è stato oggetto di molteplici interventi del legislatore. Da ultimo, le modifiche apportate all’art. 120 TUB hanno segnato la rinascita dell’anatocismo rispetto agli interessi moratori nati da qualsiasi contratto bancario.
Secondo le norme civilistiche, in particolare l’art. 1283 c.c., non sono dovuti gli interessi composti, ossia gli interessi maturati su interessi scaduti. La norma prevede una clausola di chiusura e afferma il divieto di anatocismo “salvo usi contrari”.
Di base, gli interessi composti sono dovuti dal giorno della domanda giudiziale con la quale si chiedono gli interessi scaduti o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti, in entrambi i casi, di interessi dovuti per almeno sei mesi.
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Anatocismo: cosa sono gli usi contrari?
L’art. 1283 c.c. fa salvi dal divieto di anatocismo gli usi contrari. La dottrina prevalente e la giurisprudenza ritengono che gli usi che la norma fa salvi siano usi normativi.
La giurisprudenza, per lungo tempo, ha affermato la non contrarietà alla norma di cui all’art. 1283 c.c. della prassi negoziale in base alla quale, nei rapporti tra banca e cliente, gli interessi a carico di quest’ultimo vengono capitalizzati ogni trimestre, sul presupposto che un uso in tal senso, di natura normativa, si fosse formato anteriormente all’entrata in vigore del codice civile.
È noto che la Cassazione ha successivamente operato, a partire dal 1999, un radicale mutamento di indirizzo, affermando la nullità della clausola, contenuta nei contratti di conto corrente bancario, avente a oggetto la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, ritenendo che essa si basasse su di un mero uso negoziale e non su di una vera e propria norma consuetudinaria.
All’uso in esame è stata dunque negata veste normativa. Ciò in quanto le c.d. “Norme Bancarie Uniformi” hanno previsto la capitalizzazione trimestrale degli interessi a partire dagli anni ’50, quindi, dopo l’entrata in vigore del codice civile, sicché esse non sono idonee a determinare la nascita di un uso normativo in contrasto con una sorta di abrogazione per desuetudine della norma imperativa, che l’ordinamento certamente non ammette.
Secondo la Corte di Cassazione, quindi, l’uso bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi è il risultato di clausole imposte dalla banca al cliente, non riconducibili a un comportamento bilaterale voluto e libero come, peraltro, richiesto per la sussistenza dell’uso normativo. La relativa clausola deve ritenersi nulla in quanto incompatibile con l’art. 1283 c.c.
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La nullità della clausola che prevede l’anatocismo bancario
La giurisprudenza, (Sez Un. 24418 del 2010) ha poi previsto la nullità della clausola che prevedeva la possibilità di capitalizzazione degli interessi, quindi il fenomeno dell’anatocismo bancario.
Con la nullità, la banca è tenuta a restituire l’intera somma richiesta dal cliente a titolo di interessi anatocistici.
Si è posta poi la questione di stabilire quando decorre il termine di prescrizione, essendo indubbio che l’azione di nullità è imprescrittibile, ma comunque l’azione di ripetizione dell’indebito si prescrive nel termine di 10 anni.
Dunque, era incerto se tale termine decorresse dalla data dell’addebito sul conto corrente degli interessi, oppure da quella della chiusura finale del conto.
La questione era di particolare rilievo, perché ove fosse stata accolta la prima tesi, le azioni di ripetizioni sarebbero, nella stragrande maggioranza dei casi, già prescritte.
Aderendo alla seconda impostazione, invece, le somme indebitamente corrisposte sarebbero ripetibili fino a dieci anni dopo l’estinzione del rapporto, con allungamento a tempo indeterminato dei tempi per proporre azione di ripetizione. Inoltre, ne consegue anche il diritto del correntista a ottenere la restituzione di tutti gli interessi illegittimamente percepiti dalla banca.
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Le due teorie sulla prescrizione
In un primo momento, si è detto che la prescrizione dell’azione di ripetizione decorreva dai non singoli addebiti sul conto corrente degli interessi, ma dalla chiusura del rapporto. Ciò si basava sulla concezione unitaria del contratto, il quale darebbe luogo a un unico rapporto giuridico, in cui i singoli accreditamenti e addebiti non sono rapporti individuali.
Altro orientamento minoritario, invece, sostenuto dalla giurisprudenza di merito, evidenziava che ogni annotazione sul conto corrente comportava una modifica del saldo disponibile, determinando in tal modo la somma esigibile dal correntista ai sensi dell’art. 1852 c.c..
Esso si riteneva fosse equivalente a tutti gli effetti ad un pagamento, estinguendo l’eventuale debito della banca o del cliente. Quindi il diritto alla ripetizione nasceva dal momento della contabilizzazione.
Con la sentenza del 2010, le Sezioni Unite hanno accolto la seconda tesi. La Cassazione ha sostenuto la natura meramente contabile del rapporto di conto corrente, escludendo che le annotazioni sul conto degli interessi possono essere qualificate come pagamento.
La rinascita dell’anatocismo bancario
Il legislatore è nuovamente intervenuto in tema di anatocismo bancario. Il comma 2 dell’art. 120 TUB è una delle norme più significative in materia.
Nella sua versione iniziale, in vigore dal 1° gennaio 1994 al 18 ottobre 1999, la norma si limitava a prevedere la sola decorrenza delle valute e la produzione degli interessi, senza far cenno al fenomeno dell’anatocismo bancario.
In seguito, l’art. 25 co. 2 del D.Lgs 4 agosto 1999 n. 342 ha introdotto il comma 2, che riconosce il c.d. anatocismo bancario, delegando al CICR (Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio ) l’emanazione di norme dispositive in materia.
Il comma 2 dell’art. 120 TUB è rimasto immutato fino alla sua sostituzione nel gennaio 2014, introducendo la presente versione:
“Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che:
a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori;
b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”.
Successivamente, il d.l. 24 giugno 2014, n 91, ha introdotto un’ulteriore modifica alla disposizione in esame, riconoscendo nuova operatività all’anatocismo abrogato.
L’ultimo intervento è stato però operato con l’art. 17 bis del d.l. 14 febbraio 2016, n. 18.
Per effetto della riforma, sotto un’apparente parvenza di conformità alla disciplina al divieto di produrre interessi sugli interessi, in sede bancaria l’istituto dell’anatocismo è tornato a operare nei rapporti banca cliente.
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Come è stato reintrodotto l’anatocismo?
Dopo aver brevemente elencato le norme che hanno consentito la reintroduzione
dell’anatocismo bancario, passiamo ora alla loro analisi più nel dettaglio.
In primo luogo, dobbiamo evidenziare che la prima formulazione del 2013 dell’art. 120 TUB non distingueva tra interessi debitori e creditori.
La norma, inoltre, imponeva un divieto assoluto di anatocismo, seppure sussistevano delle incertezza interpretative, in particolare rispetto all’espressione “periodicamente capitalizzati”.
Inoltre, proprio alla luce di tale formulazione, la lett. b) era letta alla luce della lett- a), il che portava a limitare il capo di applicazione alle sole operazioni di conto corrente.
Con la riforma del 2016 (D.L. n. 18/2016), il legislatore ha espressamente precisato che:
- il divieto di capitalizzazione degli interessi si applica unicamente allo interessi debitori, fatta eccezione per gli interessi di more;
- tali interessi si devono calcolare solo sul capitale.
Dunque, il legislatore ha inteso certamente far riferimento agli interessi debitori in genere alla lett. b, senza limitazione ai rapporti di conto corrente e di conto pagamento, di cui alla precedente lett. a). Sono, quindi, rientranti nel divieto tutti i contratti bancari da cui hanno origine interessi, anche mutui e finanziamenti in genere.
Il legislatore ha però previsto un’eccezione a predetta regola, con riferimento agli interessi moratori.
È stato, quindi, previsto l’anatocismo bancario rispetto a tutti i contratti bancari, anche se limitatamente agli interessi moratori, che però costituiscono l’aspetto più rilevante dal punto di vista economico.
Questa norma, sia pure su base negoziale, legittima nei rapporti bancari, oggi, di nuovo una forma di anatocismo, perché quando il cliente autorizza l’addebito in conto, se
poi nel conto non c’è capienza, quegli interessi diventano capitale e iniziano a produrre nuovi interessi. Quindi il 120 del TUB, nell’ultima formulazione, prevede indirettamente una forma di anatocismo bancario.
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Anatocismo – Domande frequenti
No, l’art. 1283 c.c. vieta espressamente l’anatocismo. Tuttavia, sono previste alcune limitate eccezioni, relative ai c.d. usi normativi, sorti prima dell’introduzione del codice.
L’anatocismo oggi è espressamente previsto dall’art. 120 TUB, in ipotesi circoscritte e limitate. In particolare, opera con riferimento ai contratti bancari. Inoltre, solo gli interessi moratori sono soggetti a capitalizzazione.
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