Mi possono licenziare perché ho rifiutato il trasferimento in un’altra sede? A volte sì
Il rifiuto al trasferimento è un diritto del lavoratore? Quando può dire di no senza rischiare di perdere il lavoro? Vediamo una recente sentenza sul licenziamento di una dipendente per approfondire la questione.
La Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, Ordinanza n. 29341 del 6 novembre 2025) ha confermato la legittimità del licenziamento di una dipendente che aveva rifiutato il trasferimento di sede. La Suprema Corte ha ribadito un principio fondamentale: il rifiuto della prestazione lavorativa è lecito solo se conforme ai principi di buona fede e correttezza (Art. 1460 c.c.) e supportato da prove concrete di effettive e oggettive difficoltà personali o familiari. Vediamo cosa è successo.
Quando il licenziamento per rifiuto al trasferimento è legittimo?
La controversia che vogliamo prendere come esempio riguarda una dipendente della società Total E. E P. Italia S.p.A. A seguito della disposizione aziendale (febbraio 2020) di trasferimento dalla sede di Roma a quella di Corleto Perticara (Potenza), la lavoratrice non ha preso servizio nella nuova destinazione.
La dipendente, madre di due bambini piccoli, ha giustificato la sua assenza per ragioni familiari e ha chiesto di rimanere operativa nella capitale. L’azienda ha contestato l’assenza ingiustificata (dall’11 al 15 maggio 2020) e ha proceduto al licenziamento disciplinare (9 giugno 2020).
La lavoratrice ha impugnato il provvedimento, ma sia il Tribunale sia la Corte d’Appello di Roma (sentenza n. 221/2024) hanno respinto il ricorso, osservando due elementi chiave:
- esigenze organizzative – alla data del trasferimento, la società non disponeva più di alcuna sede a Roma, rendendo il trasferimento giustificato da effettive esigenze organizzative;
- mancanza di prove – le giustificazioni addotte dalla lavoratrice sono state ritenute generiche, in quanto non erano state allegate prove concrete e dettagliate delle “oggettive difficoltà familiari”.
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Il ricorso in Cassazione
In sede di ricorso in Cassazione, gli Ermellini hanno dichiarato il ricorso infondato, confermando integralmente la decisione d’appello e richiamando l’ambito applicativo dell’art. 1460, comma 2, del c.c. (eccezione di inadempimento).
Il principio cardine è che il lavoratore può rifiutare la prestazione (e, implicitamente, il trasferimento) solo se il rifiuto non contrasta con la buona fede e la correttezza.
La Cassazione ha convalidato la legittimità del licenziamento per assenza ingiustificata sulla base di tre accertamenti corretti da parte della Corte territoriale:
- il trasferimento era giustificato da esigenze aziendali (chiusura della sede originaria);
- la lavoratrice non aveva fornito elementi concreti che dimostrassero l’impossibilità reale di spostarsi per ragioni familiari o personali;
- il rifiuto di prendere servizio non era sorretto da buona fede, anche ipotizzando un vizio formale nel trasferimento.
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Posso rifiutare il trasferimento e non rischiare il licenziamento?
Quanto appena esposto evidenzia che, per evitare il licenziamento per rifiuto al trasferimento, non basta invocare genericamente i “problemi familiari”. È essenziale fornire idonea documentazione e prove dettagliate che dimostrino l’oggettiva e insormontabile difficoltà a spostarsi, pena l’accertamento di un inadempimento grave da parte del lavoratore.
In generale, il datore di lavoro ha il diritto di trasferire un dipendente nel momento in cui il luogo di svolgimento della prestazione cambia, ma in modo definitivo e non momentaneo (come può essere la trasferta). Il trasferimento deve quindi essere oggettivo e non basarsi su mere motivazioni soggettive. Quali sono i casi in cui un dipendente può opporsi?
Intanto, se il lavoratore rifiuta il trasferimento senza un motivo, potrebbe essere licenziato per giustificato motivo soggettivo. Nell’ipotesi in cui ritenesse che il trasferimento sia illegittimo, dovrebbe continuare a lavorare e, nel frattempo, fare causa al datore di lavoro, altrimenti passerebbe dalla parte del torto.
Quanti km per rifiutare il trasferimento?
A questo punto, vediamo cosa dice la legge in relazione ai chilometri di distanza dalla precedente sede lavorativa. Se lo spostamento in una nuova sede è superiore a 50 km dalla residenza del lavoratore o il nuovo posto di lavoro si può raggiungere in un tempo di 80 minuti, allora il lavoratore avrebbe il diritto a dimettersi.
In tale ipotesi, trattandosi di una causa involontaria che lo porta in uno stato di disoccupazione, avrebbe diritto alla NASpI. Dovrebbe quindi presentare la relativa domanda all’INPS motivata dalle sue “dimissioni per giusta causa“. In un secondo momento, potrà anche decidere di fare causa al suo datore di lavoro.
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