Tanti messaggi ricevuti ripetutamente su WhatsApp possono far scattare la condanna per molestie?
La risposta è si. Il reato di molestie è previsto dall’art. 660 del Codice Penale, il quale prevede che chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito, a querela della persona offesa, con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516. Si procede tuttavia d'ufficio quando il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità.
- Si può essere denunciati e condannati per “Molestia o disturbo alle persone”a seguito dell’invio ripetuto di messaggi tramite WhatsApp, perché le piattaforme di messaggistica non sono spazi senza regole. Lo stabilisce la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, num. 37974 del 2021.
- L’insistente invio di messaggi WhatsApp, se prolungato nel tempo e percepito come opprimente, è sufficiente a configurare il reato. Come previsto dal Tribunale di Torre Annunziata, con la sentenza numero 385 del 3 marzo 2025.
- Non è necessario che i messaggi siano minacciosi o offensivi, basta il numero spropositato, e la possibilità di bloccare l’utente non esclude il reato.
L’art. 600 del c.p. disciplina il reato di molestia e prevede che tale reato venga commesso “in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono“. Ci si chiede se la portata della norma si estenda anche alle chat WhatsApp e alle mail.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione, num. 37974 del 2021, chiarisce che la messaggistica WhatsApp, così come altre forme moderne di comunicazione istantanea, non erano conosciute dal Legislatore del 1930, motivo per cui l’art. 660 fa riferimento esclusivamente al mezzo del telefono e non anche a WhatsApp e, seppur la tutela della tranquillità individuale incontra il limite della legge penale costituito dal “principio di stretta legalità” e di tipizzazione delle condotte illecite, sanciti dall’art. 25, secondo comma, Cost., e dall’art. 1 c. p., si ritiene che il reato di molestie possa
essere commesso tramite WhatsApp.
Diverso è il caso delle email, perché non essendo l’interazione immediata, tra il mittente e il destinatario, parte della giurisprudenza ritiene che non si possa configurare il reato di molestie. Il parere non è unanime perché è stato rilevato come, oggi, anche le email arrivino istantaneamente sui telefonini e quindi posso essere petulanti e invadenti e integrare al condotta criminosa prevista dall’art. 660 c.p.
La sentenza num. 3797/2021 della Corte di Cassazione
La Suprema Corte, con la sentenza del 2021, chiarisce quali devono essere gli elementi per la configurazione del reato previsto dall’art. 660 c.p. In pratica, “l’elemento materiale della ‘molestia’ è costituito dall’interferenza non accetta che altera dolorosamente, fastidiosamente o importunamente, in modo immediato o mediato, lo stato psichico di una persona (Sez. 1, n. 19718 del 24/03/2005, Guarnieri, n.m.) e l’atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma dev’essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente” (Cassazione Penale Sent. Sez. 1
Num. 37974 Anno 2021).
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Cosa intende la Legge per petulanza?
Non è solo necessario che il messaggio o la chiamata siano fastidiosi, cioè non accetti dall’altra parte, ma è necessaria una specifica condotta, che qualifica in senso oggettivo tale condotta come delittuosa. Deve dunque essere presente anche la petulanza, intesa come arroganza, sfacciataggine e indiscrezione, che causi stress e disagio psicologico alla persona offesa. Quando le notifiche raggiungono un numero rilevante, provocano nella vittima pressione psicologica, sufficiente a configurare la molestia.
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A chi deve essere rivolta la molestia?
Il disturbo e la molestia devono essere indirizzati verso persone determinate e non quindi verso la collettività intesa in via generale.
Si può contestare la condotta delittuosa a un soggetto durante una lite familiare, come accaduto nel caso di cui tratta una sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, numero 385 del 3 marzo 2025, che ha qualificato come reato di molestie l’invio di una raffica di messaggi vocali su WhatsApp.
Il giudice, nelle motivazioni della sentenza, si sofferma sul concetto di petulanza, precisando che:
non conta solo ciò che si scrive o si registra, ma anche come e quanto frequentemente si inviano le comunicazioni.
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I 70 vocali, inviati in tempi ristretti, sono stati considerati un atto deliberato per disturbare la serenità della vittima. Non ci troviamo più di fronte ad un classico dissidio familiare, ma a un illecito penale. L’insistenza, se prolungata nel tempo e percepita come opprimente, può essere sufficiente a configurare il reato.
L’aggressione digitale viene considerata alla stregua di comportamenti persecutori nel mondo reale. Una lite, che sia tra familiari, o tra amici o conoscenti, o nei confronti di qualunque soggetto, se gestita in modo aggressivo e petulante attraverso la tecnologia, può facilmente trasformarsi in un procedimento penale con tutte le conseguenze del caso.
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Offensività dei messaggi
Non è necessario che i messaggi siano minacciosi o offensivi. Il numero consistente di telefonate e/o messaggi, anche WhatsApp, infatti, comporta un disturbo e uno stato di turbamento al soggetto per cui la condotta è illegittima, anche se i messaggi non sono offensivi, ma solo insistenti e sgraditi, si configura il reato di molestie.
La possibilità di bloccare l’utente non esclude il reato.
Né basterà appellarsi alla possibilità di boccare il contatto per evitare il disturbo arrecato, perché la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una donna condannata per molestie verso l’ex coniuge, confermando che la possibilità di bloccare l’utente non esclude il reato. Le comunicazioni online non sono esenti da conseguenze legali.
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