Avere la residenza fiscale all’estero è legale? Il caso Jannik Sinner
Criteri, normative e implicazioni pratiche del trasferimento di residenza fiscale all’estero: il caso Jannik Sinner.
- La residenza fiscale individua il criterio di collegamento del soggetto (persona fisica o persona giuridica) con il territorio ove uno Stato esercita la propria potestà impositiva.
- È fiscalmente residente la persona che, per la maggior parte del periodo di imposta, mantiene la residenza, il domicilio e che sia presente e abbia relazioni personali e familiari in Italia.
- La residenza anagrafica è diversa dalla residenza fiscale, poiché rappresenta il luogo in cui la persona ha la sua dimora abituale.
La scelta di trasferire all’estero la residenza fiscale è spesso (a torto) percepita come frutto di un comportamento al limite della legalità, perché finalizzata a fruire di una tassazione, in alcuni casi, più “leggera” rispetto a quanto previsto in Italia. E ciò, ovvero il vantaggio in termini di imposte dovute, è quasi sempre innegabile.
Ciò che, invece, è spesso errato è il convincimento che il trasferimento della residenza all’estero sia non previsto dalla legge o al limite della legalità, proprio in ragione di una tassazione più favorevole. È il caso di Jannik Sinner, famoso tennista italiano, l’ultimo di cui si parla solo in ordine di tempo, che ha trasferito la sua residenza fiscale all’estero e, precisamente, nel principato di Monaco.
La scelta di Sinner, come di molti altri sportivi e imprenditori, alimenta sempre un ampio e acceso dibattito, perché, molte volte, si lascia intendere, seppur velatamente, che sia una pratica scorretta. In realtà non è così. Lo spostamento della residenza, anche in un Paese dove la tassazione sui redditi è più favorevole, se nel rispetto di specifiche condizioni, è una facoltà legittima e perfettamente legale.
Differenza fra residenza anagrafica e residenza fiscale
Il concetto di residenza a cui, nella maggior parte dei casi, si fa riferimento è la residenza anagrafica, prevista ai sensi dell’art. 43 c.c. Il citato articolo definisce la residenza anagrafica come il luogo in cui la persona ha la sua dimora abituale.
Nella maggior parte dei casi, la residenza anagrafica coincide con la dimora, intesa come il luogo nel quale una persona abita e svolge in maniera continuativa la propria vita personale. Da un punto di vista fiscale, invece, e dunque ai fini del pagamento delle imposte, rileva un diverso concetto, ovvero la residenza fiscale.
La residenza ai fini delle imposte, a differenza della residenza anagrafica, individua il criterio di collegamento del soggetto (persona fisica o persona giuridica) con il territorio statale, che giustifica l’imposizione, ovvero la tassazione da parte delle Autorità fiscali, che, nel caso dell’Italia, è l’Amministrazione finanziaria, ovvero l’Agenzia delle entrate-Riscossione.
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Quando si è fiscalmente residenti in Italia
La residenza fiscale è disciplinata nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 2, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, comunemente noto come TUIR.
Per espressa previsione normativa della citata norma, si considera residente in Italia e, dunque, soggetto al sistema di tassazione italiano, la persona fisica che, per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, ha:
- la residenza in Italia ai sensi del c.c.;
- il domicilio in Italia, inteso quale luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona;
- la presenza in Italia.
Altra importante condizione riguarda l’iscrizione all’Anagrafe della popolazione residente (salvo prova contraria). Le citate condizioni sono tra loro alternative: ciò significa che la sussistenza di una sola disposizione è sufficiente a radicare la residenza di una persona in Italia.
Medesimi presupposti sono previsti per stabilire la residenza delle società. Per risultare residenti in Italia, le persone giuridiche devono mantenere la sede legale, la direzione effettiva e la gestione ordinaria in via principale dell’attività.
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Come si calcola la maggior parte del periodo di imposta per la residenza fiscale
Come evidenziato, l’art. 2, comma 2, TUIR, considera residenti in Italia le persone fisiche e giuridiche che, per la maggior parte del periodo di imposta, rispettano le citate condizioni.
Il concetto della maggior parte del periodo di imposta è pari a 183 giorni in un anno o 184 giorni in caso di anno bisestile.
Ciò significa che, se i presupposti indicati dall’art. 2 TUIR permangono per almeno 183 (o 184) giorni, la persona si considera residente in Italia.
Nel computo dei giorni, per effetto delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 209/2023, a partire dal 2024, rilevano anche le frazioni di giorno.
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Perché conviene trasferire la residenza all’estero
Il trasferimento all’estero è una scelta che può essere legata a diversi motivi: lavorativi, familiari, di opportunità. In tale ultimo caso, può farsi rientrare anche la previsione di una tassazione sui redditi più favorevole. L’obiettivo di pagare meno tasse nel rispetto delle norme internazionali in tema di tassazione è prevista ed è legale.
In tali casi, infatti, se si rispettano le normative vigenti, anche se il trasferimento della residenza all’estero comporta una tassazione meno gravosa, è bene chiarire che non si tratta di evasione fiscale, ai danni dello Stato Italiano, ma di semplice pianificazione fiscale legittima.
La differenza (sostanziale) risiede nel rispetto delle regole del Paese di residenza e nella dimostrazione che si vive realmente all’estero per gran parte dell’anno.
Nel caso specifico di Sinner, la scelta è ricaduta a favore del Principato di Monaco, un Paese che non tassa i redditi personali dei residenti, ma, al contempo, uno Stato che, oltre a una adeguata rete di di servizi, offre anche uno stile di vita diverso, più attento ai bisogni anche di privacy e per questo scelto da personaggi noti e facoltosi.
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Residenza all’estero e doppia imposizione
Trasferirsi fuori dall’Italia può porre, da un punto di vista fiscale, problematiche di doppia imposizione. Con tale concetto si intende l’ipotesi in cui un medesimo presupposto impositivo (per esempio reddito da lavoro) possa essere astrattamente tassato due volte: una volta nel Paese di residenza e una volta nel Paese dove si svolge la propria attività.
Si pensi a un lavoratore italiano, residente in Italia, che si trasferisca in Francia per motivi lavorativi. In tal caso, entrambi i Paesi potrebbe esercitare il potere impositivo: l’Italia in quanto Paese ove si ha la residenza e la Francia, perché è lo Stato dove si produce reddito da lavoro.
In tali circostanze entrano in gioco le c.d. Convenzioni contro le doppie imposizioni, ovvero accordi bilaterali fra gli Stati, in cui sono stabiliti dei criteri per evitare di tassare due volte lo stesso presupposto impositivo.

Come evitare la doppia imposizione
Nella maggior parte dei casi, per evitare l’insorgenza di problemi di doppia imposizione, gli Stati possono scegliere di ricorrere a due criteri: l’esenzione e il credito di imposta. Se si opta per l’esenzione, il Paese di residenza (nell’esempio di cui sopra l’Italia), riconosce al lavoratore l’esonero dal pagamento delle imposte.
C’è poi l’ipotesi in cui gli Stati adottino l’istituto del credito di imposta per evitare le doppie imposizioni. In tal caso, le imposte pagate all’estero rilevano ai fini del calcolo delle imposte dovute nel Paese di residenza, nel senso che sono portate in detrazione dall’imposta dovuta nello Stato ove si stabilisce la residenza.
L’Italia, nella maggior parte delle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate con i vari Stati, ha scelto di optare per il riconoscimento del credito di imposta, disciplinato dall’art. 165 TUIR.
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